Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 706 - pubb. 01/01/2007

Pegno rotativo, nullità inter partes, revocatoria fallimentare e compensazione

Tribunale Mantova, 01 Ottobre 2003. .


Nullità dell'atto costitutivo di pegno per insufficiente indicazione del credito - Mancanza di concorso tra creditori - Incidenza nei rapporti inter partes - Esclusione.

Revocatoria fallimentare dell'atto costitutivo di pegno - Natura onerosa o gratuita dell'atto - Applicabilità del principio di cui all'art. 2901, II co. c.p.c. - Ammissibilità.

Pegno rotativo costituito da certificati di deposito - Aumento del valore del pegno ad ogni rinnovo per effetto degli interessi maturati - Sostituzione del bene dato in pegno - Insussistenza.

Compensazione della somma riscossa dal credito costituito in pegno con credito del creditore in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento - Ammissibilità.



La sanzione espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 2787 c.c., per il caso in cui il pegno di valore superiore a lire cinquemila non risulti da atto di data certa contenente sufficiente indicazione del credito e del bene vincolato, non è la nullità del contratto, ma semplicemente l’insussistenza del diritto di prelazione che è istituto operante nei rapporti con i terzi in ipotesi di concorso nell’escussione del patrimonio del debitore. (Nel caso di specie, è stata censurata la decisione con la quale il giudice di prime cure aveva dichiarato la nullità e l'inefficacia inter partes del contratto di pegno stipulato tra banca e debitore, senza che si ponesse alcuna questione di concorso tra creditori e, quindi, di prelazione).

Ai fini della qualificazione come gratuito od oneroso dell’atto impugnato, è applicabile, anche in materia fallimentare, il principio di cui all’art. 2901, II co. c.c., a tenore del quale “le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito”. Tale principio è, infatti, coerente con la natura intrinseca dell’atto (di prestazione di garanzia), il quale, nei confronti del soggetto erogatore del finanziamento, non può essere considerato gratuito – con conseguente inapplicabilità dell’art. 64 della legge fallimentare (salva la revoca ex art. 67, secondo comma, della legge stessa) -, perché viene a porsi in relazione di corrispettività con la contestuale erogazione del credito”. (Il tribunale aveva dichiarato l'inefficacia dell'atto di costituzione di pegno stipulato contestualmente al sorgere del credito considerando tale atto gratuito ed applicando, quindi, l'art 64 l.f.).

In ipotesi di pegno rotativo costituito da certificati di deposito, ove l'aumento del controvalore dei certificati emessi in rinnovazione alle diverse scadenze risulti dall'accredito degli interessi maturati alle singole scadenze, non si ha sostituzione di un bene di maggior valore a quello originariamente assoggettato al pegno. Detto aumento dipende, infatti, unicamente dall’applicazione del principio di cui all’art. 2791 c.c., a tenore del quale se è data in pegno una cosa fruttifera (per tale intendendosi anche la cosa produttiva di frutti civili) il creditore, salvo patto contrario, ha la facoltà di fare suoi i frutti, imputandoli prima alle spese ed agli interessi e poi al capitale.

Nell'ipotesi di pegno di crediti di cui all'art. 2800 e segg. c.c., il creditore pignoratizio, dopo aver riscosso alla scadenza il credito sottoposto al vincolo, ne effettua il deposito nel luogo stabilito d'accordo, ovvero determinato dalla autorità giudiziaria; se però il credito garantito è scaduto, il creditore può ritenere del denaro ricevuto quanto basta per il soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo al costituente. (Nel caso di specie, il giudice d'appello ha ritenuto legittima la compensazione operata prima della dichiarazione di fallimento tra il credito della banca, creditrice pignoratizia, e la somma riscossa dal credito costituito in pegno)


 


omissis

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato in data 10 febbraio 1998 il fallimento della società Belleli Holding Industriale S.p.A. conveniva in giudizio la Banca Commerciale Italiana S.p.A. (Comit) davanti al Tribunale di Mantova, esponendo: che, con dichiarazione in data 12 settembre 1994, la società predetta – poi dichiarata fallita con sentenza del 7 maggio 1996 – aveva costituito in pegno a favore della banca convenuta il certificato di deposito al portatore n. 40000582765 con scadenza vincolata al 13 febbraio 1995, emesso dalla stessa Comit in pari data, per l’importo di lire 5.000.000.000; che detto pegno era destinato a garantire: 1) una linea di credito di lire 19.400.000.000 “utilizzabile per apertura di credito all’esportazione Vulkan – Brema (Germania) con scadenza agosto 1995” accordata alla società Belleli S.p.A.; 2) ogni altro credito già in essere o di insorgenza futura verso il debitore; 3) tutti gli altri crediti di cui la banca fosse titolare nei confronti del terzo costituente il pegno, dei suoi coobbligati e dei suoi garanti. Aggiungeva che, per quanto era dato apprendere, la somma di lire 5 miliardi rappresentava un “ulteriore finanziamento” concesso dalla Comit sul contratto Vulkan Kocks, finalizzato quindi a garantire una linea di credito già in essere a favore della Belleli S.p.A.; che in data 20 febbraio 1995 il certificato di deposito bancario concesso in pegno era stato sostituito con altro analogo dell’importo di lire 5.110.000.000, a sua volta sostituito alla scadenza del 14 agosto 1995 con altro di lire 5.243.000.000; che, alla successiva scadenza di quest’ultimo certificato, in data 14 febbraio 1996, la somma di lire 5.400.257.270 ricavata dalla vendita era stata “evidenziata” in uno speciale conto nominativo, assoggettato a pegno in prosecuzione del vincolo originario.

Proseguiva la narrazione rievocando la richiesta, rivolta alla banca dal curatore con lettera raccomandata del 1° settembre 1997, di versamento del saldo attivo portato dal conto speciale, pari a lire 5.462.983.966, nonché la risposta con la quale l’istituto di credito aveva comunicato di aver legittimamente compensato il saldo attivo con le proprie ragioni creditorie.

A contestare siffatta linea difensiva il fallimento eccepiva: la nullità del pegno, per insufficiente indicazione del credito garantito; la non configurabilità di un pegno rotativo, per cui la somma chiesta in restituzione doveva considerarsi sottoposta al vincolo di garanzia solo alla data del 15 febbraio 1996; l’inefficacia del pegno, in quanto costituente atto a titolo gratuito (art. 64 legge fall.) o, comunque, revocabile ai sensi dell’art. 67 legge fall.; l’infondatezza della pretesa di compensare il saldo attivo del conto speciale con i crediti vantati dalla banca. Chiedeva quindi che il Tribunale, accertata la nullità o l’inefficacia del pegno nei confronti del fallimento, dichiarasse l’illegittimità della compensazione operata e condannasse la Banca Commerciale Italiana al pagamento a mani del curatore della somma di lire 5.462.983.966 oltre accessori.

L’istituto di credito convenuto si costituiva depositando comparsa di risposta, nella quale contestava il fondamento della pretesa osservando: che l’indeterminatezza del credito garantito poteva reputarsi esistente solo per i crediti diversi da quello inerente all’apertura di credito all’esportazione verso la Vulkan, in ogni caso dandosi luogo a mera inefficacia della prelazione, mentre il contratto doveva ritenersi valido nei rapporti fra le parti; che la discussione sul cosiddetto pegno rotativo era fuori luogo (trattandosi nel caso di specie di un pegno irregolare, siccome riguardante un certificato di deposito emesso dalla stessa Comit) e comunque infondata; che la dazione in garanzia non poteva qualificarsi atto a titolo gratuito, siccome contestuale alla concessione del credito garantito; che la compensazione era stata legittimamente operata, sia in caso di nullità del pegno, sia in caso di sua revoca. Concludeva quindi per il rigetto di ogni domanda.

Istruita la causa il Tribunale, in composizione monocratica ex art. 50 ter c.p.c., con sentenza in data 21 giugno / 10 luglio 2001 così giudicava:

“Dichiara nullo il contratto di pegno del 12.9.1994 limitatamente alla parte che estende la prelazione pignoratizia ad ogni credito verso la Belleli S.p.A. o la Belleli Holding Industriale S.p.A., diverso da quello di £. 19.400.000.000 per l’anticipo sull’apertura di credito all’esportazione “Vulkan Brema (Germania) a favore della Belleli S.p.A.

dichiara inefficace a norma dell’art. 64 l. fall. La costituzione di pegno a favore di terzo racchiusa nel contratto 12.9.1994 e/o revocabili in forza dell’art. 67 com. 1° n.3 o n.4 l. fall. i rinnovi del pegno effettuati nell’anno anteriore al fallimento

dichiara il debito restitutorio della Banca Commerciale S.p.A. non compensabile con i crediti da essa rivendicati nei confronti della Belleli S.p.A. e della Belleli Holding Industriale S.p.A.

condanna la Banca Commerciale Italiana S.p.A., con sede in Milano, in persona del legale rappresentante, a corrispondere al Fallimento della Belleli Holding Industriale S.p.A., in persona del Curatore, la somma di £. 5.462.983.966 con gli interessi legali dal 10.2.1998 nonché rifondere al detto Fallimento, in persona del Curatore, le spese del giudizio, liquidate in £. 24.096.100 (oltre IVA e CPA) di cui 996.100 per esborsi, 6.000.000 per diritti, 15.000.000 per onorari 2.100.000 per rimborsi forfetari”.

La motivazione prendeva le mosse dal rilevare che la nullità del pegno omnibus aveva, nel caso di specie, invalidato la pattizia inclusione, fra i diritti garantiti dal vincolo sul bene, di ogni altro credito diverso dal fido di lire 19.400.000.000 verso la Belleli S.p.A.: sicché, non occorrendo indugiare sugli effetti prodotti inter partes dalla parte del contratto di pegno carente del requisito di forma prescritto dall’art. 2787 c. III c.c., la disamina andava ristretta al pegno costituito per la predetta apertura di credito di lire 19.400.000.000 –

Di seguito considerava il giudicante che la curatela aveva giustamente fatto leva sull’art. 64 legge fall., in quanto l’inapplicabilità nella sedes materiae della regola codificata nell’art. 2901 c. II c.c. induceva a ravvisare gli estremi della gratuità del negozio costitutivo del pegno. Su tale presupposto osservava che, se non si era trattato di pegno rotativo, una serie di argomenti induceva a ritenere revocabili i “rinnovi” della garanzia reale, non vertendosi in una fattispecie di pegno irregolare; d’altra parte il patto di rotatività non trovava spazio nel caso di specie, in quanto il valore del bene oppignorato si era di volta in volta accresciuto per effetto della capitalizzazione degli interessi maturati su ogni singolo certificato di deposito.

L’esclusione della facoltà, per la Comit, di compensare il saldo attivo del conto speciale con le ragioni di credito da essa vantate era motivata con l’inesistenza di un debito della banca nei confronti della Belleli Holding Industriale (per essere il pegno di natura regolare), e perché la reciproca estinzione degli opposti crediti non poteva operare in una fattispecie nella quale il credito del fallito non era divenuto esigibile prima dell’apertura della procedura concorsuale.

Avverso tale sentenza interponeva appello a questa Corte, sulla base di quattro motivi, la società Intesa BCI S.p.A. (giudizialmente rappresentata dalla Intesa BCI Gestione Crediti S.p.A., già Intesa Gestione Crediti S.p.A.), subentrata nei rapporti giuridici della Banca Commerciale Italiana per effetto di fusione mediante incorporazione.

Il fallimento appellato si costituiva per resistere al gravame, di cui deduceva l’infondatezza.

Con ordinanza in data 16 gennaio / 28 marzo 2002 il collegio, ad istanza della società appellante, disponeva la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata.

Precisate le conclusioni come in epigrafe, all’udienza del 21 maggio 2003 la Corte assegnava termine alle parti per il deposito delle comparse conclusionali e delle repliche, riservandosi la decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo di gravame l’appellante si duole che il Tribunale abbia giudicato nulla la clausola di estensione del pegno a tutti gli altri crediti, diversi da quello identificato con riferimento all’esportazione verso la Vulkan Brema, senza considerare che alla mancata specificazione del credito garantito poteva ricollegarsi la sola conseguenza di escludere il diritto di prelazione nei confronti dei terzi, mentre non ne restava vulnerata la validità del pegno nei rapporti fra i contraenti.

La doglianza è fondata.

La sentenza di primo grado, dopo aver evidenziato l’invalidità della pattizia inclusione, fra i diritti garantiti dal pegno, di ogni altro credito presente e futuro verso la Belleli S.p.A. e verso la debitrice costituente, e dopo aver rimarcato che tale invalidità non si estendeva al diritto di prelazione riveniente dalla garanzia reale in rapporto al fido di lire 19.400.000.000 specificamente menzionato, ha poi aggiunto che non occorreva indugiare sugli effetti prodotti inter partes dalla parte del contratto di pegno carente del requisito di forma, “posto che non ne deriva alcun pregiudizio per il ceto creditorio, rispetto al quale i crediti non sufficientemente indicati sono chirografari, od alcun concreto vantaggio per la Comit, cui l’agevolazione concessa dall’art. 53 c. I legge fall. spetta a tutela dei soli crediti ammessi al passivo con prelazione”. Su tale premessa ha ritenuto, poi, di dover emettere nel dispositivo declaratoria di nullità del contratto di pegno, per parte che estendeva la prelazione pignoratizia ad ogni altro credito.

Così facendo il primo giudice ha tratto conseguenze giuridiche di più ampia portata, rispetto a quelle giustificate dalle premesse argomentative donde aveva preso l’avvio: ha, infatti, omesso di considerare che la sospensione del giudizio sulla validità del contratto di pegno nei rapporti inter partes impediva di pervenire ad una declaratoria di nullità, sia pure parziale; e che l’insufficiente indicazione del credito garantito – correttamente rilevata – doveva comportare la sola conseguenza della inopponibilità ai terzi della prelazione in riferimento a qualsiasi credito diverso dal fido di lire 19.400.000.000 concesso alla Belleli S.p.A. –

Ed invero, la sanzione espressamente prevista dal secondo comma dell’art. 2787 c.c., per il caso in cui il pegno di valore superiore a lire cinquemila non risulti da atto in data certa contenente sufficiente indicazione del credito e del bene vincolato, non è la nullità del contratto, ma semplicemente l’insussistenza del diritto di prelazione: che è istituto operante nei rapporti con i terzi, relativamente al concorso nell’escussione del patrimonio del debitore.

Per quanto la dichiarata nullità non abbia, poi, riverberato effetti concreti nei rapporti economici fra i contendenti, essendo dipesa da altra linea argomentativa la condanna della banca a restituire l’importo di lire 5.462.983.966, va tuttavia accolta l’istanza di riforma giustamente avanzata col motivo d’appello fin qui esaminato.

Col secondo motivo l’appellante impugna la declaratoria d’inefficacia del pegno, emessa dal Tribunale in applicazione dell’art. 64 legge fall. – Rileva, in proposito, che il curatore non ha mai avanzato domanda in tal senso in rapporto al pegno costituito il 12 settembre 1994, essendosi limitato a rivolgere la propria azione nei confronti del pegno assertivamente realizzatosi ex novo il 15 febbraio 1996. In linea subordinata, a confutazione del principio giuridico posto a fondamento della decisione, tradottosi nell’affermazione secondo cui non vi sarebbe interferenza nel regime giuridico di cui all’art. 64 legge fall., da parte della regola codificata nell’art. 2901 c.c., la deducente si richiama ai precedenti giurisprudenziali di segno opposto, a tenore dei quali anche in tema di revocatoria fallimentare deve farsi applicazione del principio, di generale portata, dettato in tema di azione revocatoria ordinaria, secondo cui le prestazioni di garanzia – anche per debiti altrui – sono considerate atti a titolo oneroso quando sono contestuali al credito garantito. Lamenta, da ultimo, l’istituto di credito appellante che il Tribunale, pur dopo aver enunciato la regola secondo la quale la gratuità o meno della garanzia dovrebbe essere valutata caso per caso, abbia omesso in concreto di attendere a tale verifica, pervenendo apoditticamente a qualificare come gratuita la dazione del pegno senza dar conto delle ragioni del suo convincimento.

La complessa censura si presenta sostanzialmente fondata, pur non essendo condivisibile in tutte le sue articolazioni.

In particolare non merita consenso la denuncia di extrapetizione insita nel primo profilo di doglianza. Pacifico essendo che la curatela fallimentare abbia inteso impugnare – ex art. 64 legge fall., o in subordine ex art. 67 della stessa legge – l’atto costitutivo dell’unico pegno del quale la banca abbia inteso avvalersi per vedere riconosciuto il proprio diritto sulla somma portata dal conto nominativo 6661522.02.11, sotto il profilo dell’identità dell’azione e nulla rileva che la genesi del pegno debba essere cronologicamente collocata al 12 settembre 1994 (come sostenuto dall’appellante), ovvero al 15 febbraio 1996 (come sostenuto dal fallimento), potendo la circostanza influire soltanto sulla fondatezza dell’azione intentata.

Piena adesione va data, di contro, alla tesi giuridica posta a sostegno del profilo subordinato secondo cui si rende applicabile anche in materia fallimentare, ai fini della qualificazione come gratuito od oneroso dell’atto impugnato, il principio canonizzato nel secondo comma dell’art. 2901 c.c., a tenore del quale “le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito”.

Il giudice di prima istanza ha ritenuto di dover accedere all’orientamento giurisprudenziale – definito “contrastato” nella sentenza, ma più esattamente qualificabile come minoritario – secondo cui “la gratuità (od onerosità) va valutata caso per caso, con esclusivo riguardo alla posizione del garante e agli effetti che l’atto, ovvero, eventualmente, altri ad esso funzionalmente collegati, abbiamo determinato nel suo patrimonio” (così Cass. 28 maggio 1998 n.5264, ivi citata). Reputa invece questa Corte che sia maggiormente appagante, per la miglior aderenza alla ratio perseguita dal legislatore, la contraria interpretazione a più riprese affermata dal Supremo Collegio, sia anteriormente (Cass. 2 settembre 1996, n.7997; Cass. 28 settembre 1991, n.10161; Cass. 20 maggio 1985 n.3085; Cass. 27 aprile 1964, n.1009) sia posteriormente (Cass. 7 giugno 1999 n.5562) all’enunciazione seguita dal Tribunale, e da ultimo con la recentissima sentenza n.10072 in data 25 giugno 2003, secondo la quale “con riguardo ad un atto costitutivo di garanzia presentata dal terzo contestualmente alla erogazione di un credito in favore di altro soggetto, il principio stabilito per l’azione revocatoria ordinaria dall’art. 2901, secondo comma, del codice civile – secondo il quale le prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a titolo oneroso, quando sono contestuali al sorgere del credito garantito – è estensibile anche al sistema revocatorio fallimentare, essendo tale principio coerente con la natura intrinseca dell’atto (di prestazione di garanzia), il quale, nei confronti del soggetto erogatore del finanziamento, non può essere considerato gratuito – con conseguente inapplicabilità dell’art. 64 della legge fallimentare (salva la revoca ex art. 67, secondo comma, della legge stessa) -, perché viene a porsi in relazione di corrispettività con la contestuale erogazione del credito”.

La motivazione addotta dalla Corte Regolatrice nell’accogliere la tesi qui condivisa si fonda sul rilievo per cui gli argomenti testuali valorizzati nell’unica pronuncia dissonante non sono dotati di efficacia persuasiva, in quanto: 1) l’essere la contestualità della garanzia, rispetto alla genesi del credito, presa in considerazione dall’art. 67 legge fall. ai soli fini della ripartizione dell’onere probatorio in ordine alla scientia decoctionis non è decisivo, poiché il credito dettato dall’art. 2901 c.c. non distingue le prestazioni di garanzia in onerose o gratuite a seconda che siano o meno contestuali al credito garantito, ma fissa una presunzione di onerosità per le prestazioni di garanzia contestuali senza, tuttavia, stabilire una presunzione di gratuità per le prestazioni di garanzia non contestuali; 2) l’espressione “agli effetti della presente norma”, che nel testo  dell’art. 2901 c.c. precede l’enunciazione della presunzione di cui si discute, significa soltanto che la presunzione stessa non ha portata generale, ma si applica soltanto alla revocatoria ordinaria e lascia immutato il problema della applicabilità alla revocatoria fallimentare della disciplina dettata per la revocatoria ordinaria; 3) lo stesso deve dirsi per la disposizione dell’art. 2904 c.c. (“sono salve le disposizioni sull’azione revocatoria in materia fallimentare…”), invocata, anzi, tradizionalmente per affermare la sostanziale unitarietà dell’azione revocatoria, assumendo che la previsione testuale, dopo la disciplina dell’azione revocatoria ordinaria, della salvezza delle disposizioni dell’azione revocatoria in materia fallimentare, lascerebbe intendere che questa rientri nella figura generale della revocatoria, poiché il richiamo non avrebbe senso se si trattasse di un istituto affatto diverso.

Il problema della compatibilità tra la disciplina dettata dall’art. 2901 c.c. e quella dettata dall’art. 67 legge fall. è stato quindi risolto dal Supremo Collegio in senso affermativo, sia sotto il profilo della valenza del criterio della contestualità, sia sotto il profilo della prospettiva rilevante ai fini della qualificazione dell’atto impugnato; siffatta notazione, considerata in una con la evidente similarità delle fattispecie e con la ricorrenza della eadem ratio, consente di applicare – quanto meno analogicamente – il disposto dell’art. 2901, 2° comma, c.c. alla revocatoria fallimentare delle prestazioni di garanzia e alla regola dell’inefficacia dell’atto gratuito, dettata dall’art. 64 della legge fallimentare.

Nel caso specifico qui rassegnato è tuttora sub iudice la contestualità della dazione del pegno rispetto alla genesi del credito garantito, dipendendo tale qualificazione dalla contestata configurabilità del c.d. “pegno rotativo”, su cui ci si dovrà soffermare trattando il successivo motivo d’appello. Fin da ora, peraltro, giova osservare che, qualora il vincolo sulla somma portata dal conto nominativo 6661522.02.11 dovesse intendersi costituito fin dalla data del 12 settembre 1994 con la dazione in pegno del certificato di deposito n. 40000582765 del valore di lire 5 miliardi, emergerebbe a chiare lettere la contestualità rispetto alla concessione del credito garantito, rappresentato dal corrispondente incremento, da lire 14.400.000.000 a lire 19.400.000.000, del finanziamento per l’esportazione concesso alla società Belleli S.p.A. –

Né gioverebbe eccepire la terzietà del soggetto identificato come debitore principale, giacché il secondo comma dell’art. 2901 c.c. fa salva l’onerosità della garanzia – qualora sia contestuale alla concessione del credito – anche quando sia prestata per debiti altrui.

Il terzo motivo d’impugnazione investe, come si è già anticipato, la dibattuta riconducibilità della fattispecie alla nozione del c.d. “pegno rotativo” ed alla connessa continuità del vincolo pignoratizio sui certificati di deposito via via succedutisi per effetto delle rinnovazioni alle rispettive scadenze e, da ultimo, sulla somma ricavata dalla realizzazione del certificato scaduto il 15 febbraio 1996.

A confutare il convincimento espresso dal giudice, con l’escluderne l’applicabilità dell’istituto in base al rilievo del progressivo aumento del “valore capitale” del bene vincolato per effetto della capitalizzazione degli interessi all’emissione di ogni nuovo certificato, l’appellante ribadisce in principalità la propria tesi secondo la quale si sarebbe trattato, nel caso di specie, di un pegno irregolare siccome avente ad oggetto un certificato di deposito rilasciato dalla stessa banca creditrice; nella contraria ipotesi insiste comunque nel sostenere la piena efficacia del patto di rotatività, non ostandovi l’accredito degli interessi prodotti dai certificati di deposito, contrattualmente previsto in attuazione del principio per cui il pegno su un bene fruttifero si estende ai suoi frutti.

La censura è fondata nella sua seconda proposizione e merita, perciò, accoglimento.

Ed invero, se per un verso si deve riconoscere che l’atteggiarsi della fattispecie non consente di riscontrare gli estremi della stipulazione di un pegno irregolare, in quanto le clausole dell’atto costitutivo – unitamente alle stesse modalità di svolgimento del rapporto – non danno conto dell’acquisizione in proprietà alla banca delle somme portate dai certificati di deposito di volta sottoposti al vincolo, per altro verso non vi è ragione di negare valenza giuridica al patto di rotatività, venuto ad espressione nell’atto costitutivo del 12 settembre 1994 e poi confermato nelle successive lettere di “presa d’atto” del trasferimento del vincolo sui certificati progressivamente emessi in rinnovazione.

L’argomento addotto dal Tribunale a giustificazione del contrario convincimento non può essere condiviso. L’aumento del controvalore numerario dei certificati emessi in rinnovazione alle diverse scadenze risulta essere il portato dell’accreditamento degli interessi maturati alle singole scadenze: ciò non si è tradotto nella sostituzione di un bene di maggior valore a quello originariamente assoggettato al pegno, ma dipeso dall’applicazione del principio – normativamente scandito dall’art. 2791 c.c. – a tenore del quale se è data in pegno una cosa fruttifera (per tale intendendosi anche la cosa produttiva di frutti civili) il creditore, salvo patto contrario, ha la facoltà di fare suoi i frutti, imputandoli prima alle spese e agli interessi e poi al capitale.

Nel caso di specie il “patto contrario” previsto dalla norma si è atteggiato nel senso, più favorevole al debitore, di estendere ai frutti civili il vincolo pignoratizio, anziché autorizzare il creditore a farli propri senz’altro. Non si è prodotta, perciò, alcuna esorbitanza dall’ordinario schema giuridico della costituzione in pegno di un bene fruttifero, né può dirsi che sia venuta meno la continuità del vincolo assicurata dalla stipulazione del patto di rotatività.

Quanto alla piena validità ed efficacia di quest’ultimo, giova qui ricordare il principio enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 10685 in data 27 settembre 1999: “il cosiddetto patto di ‘rotatività’, in virtù del quale si prevede sin dall’origine la sostituzione totale o parziale dei beni oggetto della garanzia, considerati non nella loro individualità ma per il loro valore economico, dà luogo ad una fattispecie a formazione progressiva che trae origine dall’accordo delle parti e si perfeziona con la sostituzione dell’oggetto del pegno senza necessità di ulteriori stipulazioni e quindi nella continuità del rapporto originario, i cui effetti risalgono alla consegna dei beni originariamente dati in pegno, ai fini dell’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare, la genesi del diritto reale di garanzia deve stabilirsi al momento della stipulazione originaria e non a quello successivo della sostituzione (nella specie, in applicazione di tali principi, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la revocabilità di un atto con cui erano stati costituiti in pegno titoli del debito pubblico a garanzia di debiti preesistenti e non scaduti della società poi fallita, in adempimento di un precedente accordo che prevedeva, alla scadenza, la sostituzione dei titoli con altri dello stesso tipo e valore, ove la sola sostituzione e non anche la consegna originaria era avvenuta nei termini di cui agli artt. 64 e 67 della legge fallimentare)”.

La conclusione che deve trarsi dai principi fin qui enucleati è di duplice ordine. Sotto un primo profilo, dovendosi collocare cronologicamente al 12 settembre 1994 la costituzione del pegno, la contestualità di essa rispetto al credito garantito esclude che possa applicarsi la sanzione d’inefficacia indirizzata ex art. 64 legge fall. a colpire gli atti a titolo gratuito compiuti nel biennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, nonché (per quanto occorrer possa) l’esperibilità dell’azione revocatoria di cui all’art. 67 c. I n.3 legge fall.; sotto un secondo profilo la collocazione dell’atto costitutivo della garanzia anteriormente all’ultimo anno dall’apertura della procedura concorsuale esclude, del pari, la revocabilità dell’atto ai sensi del secondo comma del citato art. 67.

Col quarto – ed ultimo – motivo di gravame l’appellante impugna il diniego opposto dal Tribunale alla compensazione fra il debito della Banca Commerciale Italiana S.p.A. per la restituzione della somma di lire 5.462.983.966 portata dal libretto nominativo intestato alla Belleli Holding Industriale S.p.A. e il debito fideiussorio di questa nei confronti dell’istituto bancario. Insiste la deducente nel sostenere la sussistenza di tutti i requisiti di legge per far luogo alla compensazione, all’uopo osservando che, contrariamente a quanto opinato dal primo giudice, vi era la coesistenza e l’esigibilità degli opposti crediti.

In proposito chiarisce che il debito verso la società – poi fallita addotto a compensazione non si identifica nell’obbligazione restitutoria avente ad oggetto la somma portata dal conto nominativo, bensì nel costo di acquisizione (lire 5.000.000.000) del certificato di deposito utilizzato per l’operazione del 12 settembre 1994; quanto al credito della banca verso Belleli Holding Industriale S.p.A., rileva esservi stato l’accertamento di esso in sede fallimentare, a seguito dell’accoglimento della

domanda di ammissione al passivo da parte della stessa Banca Commerciale Italiana.

Ad avviso della Corte, la questione inerente alla sussistenza di un obbligo di restituzione da parte della Banca Commerciale Italiana va esaminata sotto una prospettiva totalmente difforme.

La fattispecie oggetto del contenzioso va ricondotta nello schema giuridico del pegno di crediti, disciplinato dagli artt. 2800 e seguenti del codice civile. Nell’ambito di tale sistema normativo è espressamente previsto che il creditore pignoratizio, dopo avere riscosso alla scadenza il credito sottoposto al vincolo, ne effettui il deposito nel luogo stabilito d’accordo, ovvero determinato dall’autorità giudiziaria; se, tuttavia, il credito garantito è scaduto, il creditore può ritenere del denaro ricevuto quanto basta per soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo al costituente.

Orbene, nel caso che qui ne occupa, la realizzazione dell’ultimo certificato di deposito con la corrispondente acquisizione della somma di lire 5.400.257.270 ha, indubbiamente, integrato la riscossione del credito costituito in pegno. Conseguentemente, essendo frattanto venuto a scadenza il credito verso la Belleli S.p.A. con la revoca degli affidamenti comunicata il 5 novembre 1995 (vedasi la lettera raccomandata r.r. in data 2 novembre 1995, con la ricevuta allegata), già prima del fallimento la Comit aveva titolo per introitare la somma riscossa – con gli ulteriori interessi frattanto maturati – a parziale copertura del maggior credito garantito e pervenire, per tale via, all’estinzione del rapporto di pegno. E, poiché tale diritto operava direttamente nei rapporti fra essa banca e la società datrice del pegno, ben poteva la prima avvalersene indipendentemente dalla – più sopra rilevata – inefficacia del diritto di prelazione nei confronti dei terzi: ciò va detto sebbene non consti agli atti di causa (né, per vero, vi è stata allegazione in tal senso da parte della curatela) che la realizzazione del pegno sia stata finalizzata a soddisfare un credito diverso da quello validamente garantito.

Quanto osservato priva, evidentemente, di rilevanza ogni dibattito sulla configurabilità di una compensazione degli opposti crediti: giacché, non sussistendo alcun obbligo di restituzione a carico della banca, vano è discutere delle modalità di estinzione di esso.

Conclusivamente l’azione proposta dal fallimento della società Belleli Holding Industriale S.p.A. va disattesa sotto ogni profilo, così dovendosi integralmente riformare la sentenza di primo grado.

Valutato l’esito complessivo della controversia, emerge la totale soccombenza del fallimento appellato, al quale devono

perciò fare carico le spese dell’intero giudizio. La liquidazione è effettuata come segue: quanto al primo grado euro 12.822,30, in essi compresi euro 3.522,24 per diritti di procuratore ed euro 7.500,00 per onorari di avvocato; quanto al grado di appello euro 15.776,72, in essi compresi euro 3.615,20 per diritti di procuratore ed euro 10.000,00 per onorari di avvocato.

P. Q. M.

La Corte, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, definitivamente pronunciando:

in riforma della sentenza del Tribunale di Mantova in data 21 giugno/10 luglio 2001, rigetta ogni domanda proposta dal fallimento della società Belleli Holding Industriale S.p.A. nei confronti della Banca Commerciale Italiana (oggi Intesa BCI S.p.A.) con atto di citazione notificato il 10 febbraio 1998;

condanna il fallimento appellato a rifondere all’appellante le spese dell’intero giudizio, liquidate in euro 12.822,30 quanto al primo grado ed euro 15.776,72 quanto al presente.

Così deciso in Brescia, il giorno 1 ottobre 2003.